
L’elezione di Papa Leone XIV suscita in me più domande che entusiasmi. Se da un lato la figura di un Papa statunitense può sembrare una svolta storica e simbolicamente potente, dall’altro non posso ignorare il rischio che questa scelta rappresenti più una mossa diplomatica che una vera rottura con le logiche ecclesiastiche di potere.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un linguaggio sempre più raffinato ma spesso disancorato dalla realtà concreta dei fedeli. Discorsi sull’inclusione, sulla riforma, sulla sinodalità… ma poi? La Curia resta opaca, la pastorale spesso distante, e le ferite della Chiesa – dagli scandali al senso di estraneità che molti provano – rimangono aperte.
Leone XIV si affaccia al mondo con parole misurate e toni pacati, ma io non cerco solo un pontefice gentile: cerco un uomo che sappia spezzare davvero i meccanismi che imprigionano la Chiesa nel suo passato. La scelta del nome “Leone” porta con sé una certa solennità, forse anche il richiamo a una Chiesa forte e assertiva. Ma oggi la forza non si misura nel conservare l’ordine: si misura nel coraggio di cambiare.
Mi domando se questo nuovo pontificato sarà capace di ascoltare più che parlare, di scendere davvero nelle periferie, anche quelle interne: le periferie della fede disillusa, della spiritualità spezzata, di chi si è allontanato non per ribellione, ma per delusione.
Non basta una nuova voce: serve un nuovo tono. Non basta un nuovo Papa: serve una nuova coscienza ecclesiale. E da qui inizio a osservare Leone XIV, con rispetto, ma anche con lo sguardo vigile di chi non vuole più accontentarsi delle apparenze.