
Viviamo in tempi in cui le contraddizioni sembrano essere la regola, non l’eccezione. Da anni, il dibattito pubblico in Italia è dominato da due grandi emergenze sociali: il lavoro povero e le pensioni inadeguate. Milioni di persone vivono con salari che non consentono una vita dignitosa, spesso costrette a scegliere tra le bollette e la spesa. I pensionati, da parte loro, contano su assegni così bassi che la parola “fame” non appare esagerata.
Ogni volta che si prova a immaginare soluzioni a questi problemi, ci si imbatte nel mantra della “coperta corta”. Non ci sono soldi, dicono. L’austerità e i vincoli di bilancio diventano barriere insormontabili e ogni richiesta di giustizia sociale viene liquidata come insostenibile.
Ma poi accade qualcosa che ti lascia senza parole: sui giornali si legge di un emendamento approvato dalla maggioranza che prevede l’aumento degli stipendi per i ministri non parlamentari, i viceministri e i sottosegretari. La logica di questa operazione è quella di “equiparare” le retribuzioni di questi membri del governo a quelle dei colleghi che siedono anche in Parlamento. Il costo? Ben 1,3 milioni di euro all’anno.
Un messaggio devastante
La notizia ha immediatamente suscitato l’indignazione dell’opposizione e di ampie fette dell’opinione pubblica. Ed è facile capirne il motivo: non si tratta solo di un’operazione finanziaria, ma di un messaggio politico devastante. Circa 7000 euro al mese di aumento per queste persone non elette, più 1500 euro per spese di viaggi, sono cifre che davvero scatenano rabbia.
In un momento storico in cui i cittadini più fragili sono chiamati a stringere i denti, vedere che la priorità viene data a chi già gode di posizioni di privilegio appare come una beffa. Non si discute dell’urgenza di contrastare la precarietà lavorativa o di migliorare il sistema pensionistico, si trovano invece risorse per aumentare gli stipendi di chi governa.
La logica del “privilegio giustificato”
I sostenitori di questo provvedimento parlano di una misura di “equità interna” al governo, necessaria per riconoscere a tutti i ministri lo stesso trattamento economico. Ma questa spiegazione rischia di suonare grottesca: si tratta di redistribuire ricchezza tra i piani alti, ignorando chi vive sotto la soglia di povertà.
Se esiste una coperta corta, perché coprire prima i già coperti? Questo interrogativo non è solo una provocazione, ma un riflesso della crescente disillusione di un Paese che si sente sempre più distante dai suoi rappresentanti.
Una politica che non ascolta
Le decisioni come questa rivelano una profonda incapacità della politica di comprendere le priorità reali del Paese. Ogni aumento di stipendio per la classe dirigente, ogni privilegio mantenuto, ogni beneficio difeso, allarga il solco tra istituzioni e cittadini.
E mentre il dibattito si accende, il governo rischia di perdere l’occasione di dimostrare che si può agire diversamente: che si possono ascoltare le persone, ridare dignità al lavoro, migliorare le pensioni. Invece, si sceglie di parlare di coerenza interna al governo, ignorando il significato simbolico – e concreto – di simili decisioni.
La strada da seguire
Le critiche a questa operazione non devono rimanere un semplice sfogo. Devono trasformarsi in una domanda più ampia: quale tipo di politica vogliamo? Una politica che continua a proteggere chi sta in alto o una che guarda ai bisogni della maggioranza?
L’Italia ha bisogno di risposte concrete su temi come il salario minimo, le pensioni dignitose, il contrasto alla precarietà. Ogni euro speso dovrebbe essere giustificato in funzione del bene collettivo, non per assecondare le logiche interne al potere.
La speranza è che l’indignazione per questo aumento di stipendi non si limiti a un moto passeggero, ma diventi il punto di partenza per un dibattito vero sulle priorità del Paese. Perché se c’è una cosa che non possiamo più permetterci, è continuare a vivere in un mondo al rovescio.