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Verga: Vita, opere, romanzi e novelle dello scrittore siciliano

Pubblicato da in Storia ·
La vita di Giovanni Verga



Giovanni Verga è tra i narratori italiani più noti della seconda metà dell’800. Fu autore di romanzi, novelle e testi teatrali e il suo nome è legato indissolubilmente al movimento del Verismo italiano.
Ecco gli eventi più importanti della sua vita:      

1840 - Nasce a Catania da una famiglia nobile liberale e antiborbonica.
1858 - Si iscrive alla Facoltà di Legge a Catania, ma presto la abbandona per dedicarsi alla letteratura.
1860 - Allo sbarco dei garibaldini si arruola nella Guardia Nazionale in favore dell’Unità d’Italia.
1869 - Si trasferisce a Firenze, allora capitale d’Italia, dove frequenta i salotti intellettuali e la vita mondana.
1872 - Si trasferisce a Milano, dove resterà per 20 anni. Qui ha contatti con gli scrittori della Scapigliatura e conosce la narrativa europea. Negli stessi anni c’è a Milano anche l’amico scrittore Capuana, che gli fa conoscere il Naturalismo francese.
1874 - Con la pubblicazione della novella Nedda inizia il processo di conversione al Verismo.
1881- Pubblica I Malavoglia.
1884 - Durante un viaggio a Parigi incontra gli scrittori Emile Zola ed Edmond de Goncourt, esponenti del Naturalismo francese.
1890 - Torna definitivamente a Catania, dove vive nei suoi possedimenti e si allontana sempre di più dalla scrittura.
1920 - Viene nominato senatore a vita.
1922 - Muore a Catania.

Prima di approdare al Verismo, Giovanni Verga si dedica ad altri tipi di romanzi, più vicini alla letteratura di moda all’epoca. Queste opere sono importanti per il successivo sviluppo della poetica dell’autore e alcuni di essi, come la "Storia di una capinera" (1870), storia di una giovane costretta a farsi monaca, possiedono anche un valore proprio.  

Con I Malavoglia, pubblicati a Milano nel 1881, Verga giunge al romanzo muovendo dalle identiche basi che avevano prodotto le sue novelle siciliane. Riesce a creare, nella sfera sociale che già aveva individuato come punto di partenza per il ciclo dei vinti, il respiro necessario alla configurazione del più grande romanzo che sia apparso in Italia dopo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. L'oggetto della sua indagine è di nuovo il mondo degli umili, delle classi sociali più basse, il mondo dei pescatori di Acitrezza che egli affronta con una totale apertura sentimentale, offrendo il documento narrativo di un dramma economico che si vien facendo, attimo per attimo, dramma universale e che tutto coinvolge nel definirsi di una condanna assoluta, di un destino tragico per il quale non esiste scampo.

Per poter narrare quei fatti, dunque, é necessario riviverli, contemplarli come attraverso una lanterna magica. Questo improvviso chiarimento metodologico lo induce a interrompere la composizione di un altro romanzo, Il marito di Elena, per dedicarsi a quello che sarà il suo capolavoro, I Malavoglia, composto come prima opera di un ciclo, quello dei vinti, che avrebbe dovuto rappresentare una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all'artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all'avidità del guadagno (lettera all'amico Salvatore Paola, del 21 aprile 1878). Avrebbero dovuto seguire il Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso.

I Malavoglia (1881) é la storia di una famiglia di pescatori di Acitrezza, un villaggio marinaro della costa catanese, che, dopo il naufragio della barca, la Provvidenza, e la perdita del carico di lupini su cui era fondata la speranza di un buon guadagno, va distruggendosi lentamente, nonostante lo sforzo eroico del pater familias, padron 'Ntoni, e i vani sacrifici di tutti i familiari. La narrazione assume toni ora epici, ora elegiaci, ma vale soprattutto come storia di un popolo, di una gente, di una civiltà. La tenacia e l'ostinazione di un uomo che vuole salire i gradini della scala sociale e accumula ricchezza, la roba, é l'argomento del Mastro don Gesualdo (1888). Don Gesualdo Motta, mastro muratore, riesce a sposare una nobile decaduta, Bianca Trao, ma in tal modo tradisce le sue origini e sarà punito con una morte desolatamente solitaria, in un palazzo aristocratico di Palermo, tra l'indifferenza dei servitori e l'incomprensione della figlia, che si chiude in se stessa, diffidente e ostile, quasi a sottolineare l'incolmabile abisso che separa i Motta dai Trao.

La poetica verghiana della roba si ritrova nelle novelle, dove il dramma della povera gente si esprime in episodi singoli ma non per questo meno densi di significati umani.. Le novelle raccolte in Vita dei campi (1880) e in Novelle rusticane (1883) esprimono un mondo concluso e compatto e mostrano la verità più dolente della condizione umana. Jeli il pastore e Rosso malpelo sono stati definiti il primo e l'ultimo uomo del mondo, il primo perché vive ignorando la società e il secondo perché subisce il peso della società. In realtà si può dire che la tragedia dei personaggi verghiani scaturisce dal loro rapporto, sempre difficile e contrastato con la società in cui vivono. Insieme con la poetica della roba, intanto, aveva preso stabile consistenza anche la teoria linguistica del Verga, per cui lo scrittore deve adeguare la forma al contenuto, realizzando il colore locale con l'uso di lingua non dialettale ma fortemente dialettizzata.

Cessava così la predicazione ormai secolare del purismo linguistico, e veniva decretata la fine della supremazia del fiorentino nei confronti degli altri dialetti italiani.

Le altre raccolte di novelle, quasi tutte pubblicate dall'editore Emilio Treves, col quale il Verga aveva istituito un rapporto di amicizia e di collaborazione anche letteraria, affrontano argomenti non soltanto siciliani, ma anche delle classi popolari e della borghesia lombarda, ma il ciclo dei vinti resterà incompiuto. Esse sono Per le vie (1883), Drammi intimi (1883), i Ricordi del capitano d'Arce (1891), Vagabondaggio (1887), Don Candeloro e compagni (1884).

Il Verga affrontò anche la prova delle scene e, come è noto, il suo dramma più fortunato è Cavalleria rusticana; ma non era un autore drammatico, né per vocazione né per scelta letteraria, sicché non tutti gli altri suoi lavori teatrali ebbero successo (La lupa, Caccia al lupo, Caccia alla volpe, In portineria, Rose caduche, Dal tuo al mio, oltre ai citati Nuovi tartufi).

Nel 1894 il Verga torna a Catania e vi rimane, tranne per qualche rara e breve evasione, per tutto il resto della vita. Comincia così quel lungo silenzio di cui molto si è discusso. La morte del fratello e la necessità di provvedere all'amministrazione familiare in favore dei nipoti fu certamente la prima causa del distacco dagli ambienti letterari dove erano state concepite e realizzate quasi tutte le sue opere, ma forse anche la stanchezza gli impedì di riprendere la penna. Ormai, del resto, aveva dato il meglio di sé ed era troppo consapevole delle proprie possibilità per affrontare, senza la serietà e l'impegno che avevano contraddistinto tutta la sua vita, l'avventura di un nuovo romanzo. Aveva cominciato a raccogliere, con il solito scrupolo, la documentazione per La duchessa di Leyra, ma non arrivò oltre al primo capitolo, sebbene gli amici, primo fra tutti il De Roberto, lo esortassero a continuare. E' probabile che la sua penna si fosse dimostrata inefficace nella descrizione degli ambienti delle classi elevate in cui avrebbero dovuto muoversi i protagonisti degli altri romanzi del ciclo dei vinti.

Neanche la nomina a senatore (1920) e i festeggiamenti per il suo 80° compleanno (con un discorso di Pirandello al teatro Massimo di Catania) riuscirono a farlo uscire da quel dignitoso isolamento, da quel suo atteggiamento schivo e solitario, che pur nei salotti fiorentini e milanesi ne avevano contrassegnato il carattere umano.

Il Verga moriva, nella sua casa di via Sant' Anna, il 27 gennaio 1922.


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